Cinquantaquattro nazioni, oltre 2.000 lingue, un miliardo e mezzo di persone. Questa è l’Africa, un continente vasto e spesso sconosciuto. «Una regione del mondo trattata e descritta come se fosse un unico paese, privo di sfumature e condannato per sempre alle privazioni» scrive Dipo Faloyin, giornalista britannico di origine nigeriana, in un volume pubblicato da Altrecose, il marchio del Post per Iperborea. Il libro è ricco e illuminante sotto diversi aspetti, soprattutto perché, come recita il sottotitolo, offre “Istruzioni per superare luoghi comuni e ignoranza sul continente più vicino.”
«Per troppo tempo “Africa” è stato sinonimo di povertà, conflitto, corruzione, guerre civili e grandi distese di arida terra rossa dove cresce soltanto miseria. Oppure viene presentata come un grande parco safari, dove leoni e tigri si aggirano liberi intorno alle case e gli africani trascorrono le giornate in tribù di guerrieri seminudi con in mano una lancia, cacciando selvaggina, o saltando su e giù al ritmo di un rituale in attesa del prossimo pacco di aiuti. Povertà o safari, in mezzo niente» afferma Dipo Faloyin.
Dipo Faloyin, scopro, è per metà yoruba e per metà igbo, e se hai letto quello stupendo romanzo che è Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie sai cosa significa. Gli Yoruba, cristiani e musulmani, sono la principale etnia nel sud-ovest della Nigeria, mentre gli Igbo, per gran parte cattolici, sono predominanti nel sud-est, spiega l’enciclopedia Treccani. La complessità, insomma, fa parte della storia di questa nazione, e di tutto il continente, e le identità si formano in maniera diversa.
Incontro Dipo Faloyin a Milano a settembre, reduce da un incontro affollatissimo al Festivaletteratura di Mantova. Sono curiosa, perché il suo libro mi ha aperto gli occhi sul nostro modo di pensare e di vedere le cose (quelle che passano attraverso i media: gli sbarchi, la fuga dalle guerre, la povertà), sui nostri pregiudizi e la superficialità che riserviamo a questo continente, senza considerare le differenze culturali, sociali, economiche, storiche. Lo reputo un arricchimento. La necessità di “raccontare un’altra storia” per citare ancora Chimamanda.
«L’Africa è un melting pot di cose differenti» mi dice. «Mi è sempre sembrato strano il fatto che le persone siano legate a una singola e univoca storia dell’Africa, quando in realtà c’è tanto di quel passato, tradizioni e presente. Così tante dinamiche e azioni. L’Africa può essere fatta di storie di grande gioia e successo come di grande dolore e sofferenza, e tutto quello che può esserci nel mezzo. È la vita di tutti i giorni, è andare a scuola, incontrare gli amici, andare al cinema o al ristorante, viaggiare, perdere il lavoro. Tutte quelle cose che succedono in ogni parte del mondo».
Dipo Faloyin esprime una visione molto critica riguardo le azioni dell’Occidente, ripercorrendo la storia a partire dalla Conferenza di Berlino, che consentì alle potenze europee di rivendicare territori lungo le coste africane, dando inizio alla cosiddetta “corsa per l’Africa” e alla sua spartizione. L’emigrazione e il mescolarsi delle culture sono una costante nella sua vita: nato negli Stati Uniti, è cresciuto a Lagos e ora vive tra questa metropoli nigeriana e Londra, dove lavora. «Sono sempre stato affascinato dalle identità e dalle persone di diverse culture, mi è sempre piaciuto incontrarle e conoscerle: scoprire come vivono, cosa mangiano, e quali sono le loro tradizioni. È sempre stato frustrante per me vedere come l’Africa e noi africani siamo considerati. Siamo tutti individui unici, con le nostre differenze, la nostra storia e il nostro bagaglio di esperienze. Ho scritto questo libro nella speranza di cambiare un po’ le cose».
La beneficienza, per esempio. Un’intera parte è dedicata a quello: “La nascita del salvatore bianco, ovvero, come non essere un salvatore bianco e fare comunque la differenza”. Un argomento spinoso, che prende avvio dalla storia di 3 registi che nel 2003 andarono in Uganda e si imbatterono in un adolescente di nome Jacob che era in fuga dal gruppo ribelle chiamato Lord’s Resistance Army, noto per sequestrare e stuprare migliaia di ragazzini costringendoli poi a diventare soldati. Da quell’incontro nacque l’associazione benefica Invisible children, e, nel 2012, il film Kony che suscitò proteste da parte di alcuni ugandesi. «Il complesso del salvatore bianco rafforza l’idea che gli africani non potranno mai essere la soluzione, che siano incapaci di agire e che l’alba della speranza arriverà solo se cullata nel caldo e luminoso abbraccio del mondo occidentale, sempre pronto a salvare la situazione» scrive Dipo Faloyin. Porta poi a esempio gli anni Ottanta, le campagne per l’Etiopia, strangolata da una carestia epocale esacerbata anche dal governo militare, e iniziative come Usa for Africa, We are the World, il Live Aid e Do they Know It’s Christmas? («che ha condensato tutti i peggiori stereotipi su un enorme paese in crisi in un piacevole motivetto di quattro minuti, di così facile ascolto da rimanere inamovibile per decenni nel repertorio annuale delle hit festive suonate nei locali e nei party aziendali»).
Mi parla anche di Black Lives Matter: «Penso che oggi ci sia una maggiore volontà di affrontare temi come il razzismo, il colonialismo e, di conseguenza, anche le problematiche dell’Africa. Anche i giovani insegnanti in Inghilterra stanno cambiando prospettiva. Sono le generazioni più anziane che trovano difficile modificare il loro punto di vista. In particolare nel Regno Unito, c’è timore nel parlare di colonialismo perché è ancora un argomento a cui sono molto legati e spesso orgogliosi». Alla base delle difficoltà nell’accettare le differenze, mi spiega, «c’è la paura del cambiamento delle dinamiche, del diverso, dello straniero, ma anche le difficoltà economiche giocano un ruolo. È una sorta di difesa della cultura con cui sei cresciuto. Il modo migliore per risolvere il problema è discuterne, aprire il dialogo, informare e informarsi».
Dipo Faloyin ci tiene a precisare che non ha scritto il libro per condannare qualcuno, ma solo per informare e dare la possibilità per ascoltare la storia da un altro punto di vista e di imparare cose nuove. «Cresciamo tutti con dei pregiudizi, con una certa idea di chi sono le persone, è solo la nostra esperienza, l’incontrare una persona, guardare un film, leggendo, parlando con un collega che viene da un paese straniero che mi posso fare un’idea nuova di certe cose, al di là dei preconcetti. È la curiosità che ci permette di capirci l’uno con l’altro».
Divertente è quando parla di come Hollywood rappresenta le persone africane, come insista sugli accenti (spesso sbagliati), o addirittura le ignori. Cita Independence Day, il film del 1996 con Jeff Goldblum e Will Smith: la Terra è minacciata da un’invasione aliena e vengono chiamate a raccolta tutte le Nazioni. Peccato che l’Africa non sia nemmeno considerata. «Una strana svista, considerando che il continente è rappresentato nelle mani di signori della guerra e sanguinari dittatori militari. Si potrebbe pensare che, data la nostra propensione al genocidio, l’Africa sia il primo posto da chiamare quando l’obiettivo è annientare un’intera civiltà».
«La cultura pop è la prima via di accesso per comprendere le altre culture. Se pensi a quello che è stata quella americana nel diffondere attraverso i film e i tv show la sua visione del mondo. Lo stesso non è stato per l’Africa, ci hanno regalato solo safari, colonialisti bianchi, storie d’amore col paesaggio nello sfondo». Tra i migliori film “africani” che Hollywood ci ha dato ricorda però Black Panther che nel 2019 vinse 3 Oscar. E cita anche il già nominato Americanah: la storia d’amore di due ragazzi e la loro vita di tutti i giorni, in cui ognuno può identificarsi. Il volume è ricco, complesso, racconta anche la storia di alcune nazioni per spiegarne l’attualità, si sofferma su alcune tradizioni, come quella del riso jollof, su alcuni ricordi personali per darci un primo accenno della vastità di un continente di cui sappiamo davvero poco. Insomma, l’Africa non è un paese e noi, questo paese, dovremmo guardarlo a fondo un po’ di più.