Al cinema mi piace piangere, spaventarmi, emozionarmi fino a rosicchiarmi le unghie. Anche pensare, ma quello posso farlo ugualmente sdraiata sul divano di casa guardando la tv. Davanti al grande schermo è tutta un’altra cosa, e amo andarci per gustare fino in fondo gli effetti speciali. Dando per scontato i film di fantascienza (avete provato a vedere Dune in tv? Dài, stiamo scherzando?), sul gradino più alto della mia personale classifica di film che ti smuovono ci sono quelli catastrofici (qualcuno direbbe che è perché ho una tendenza innata al dramma). Che, al contrario del loro nome, per la gran parte delle volte hanno un happy ending e battute brillanti, storie d’amore e quant’altro per alleggerire un po’ la tensione. Ma è quello che ci sta in mezzo che per me è ipnotizzante.
Così l’altra sera ho convinto un’amica – che avrebbe preferito guardare Deadpool & Wolverine, non foss’altro per Hugh Jackman – ad andare a vedere Twisters. Twisters, per chi non lo sapesse, è il sequel di Twister, uscito con grande clamore nel 1996 perché aveva degli effetti così speciali che al cinema non si erano mai visti: raffiche di pioggia, chicchi di grandine come palle da tennis, vortici impressionanti che sembrava ti venissero addosso, case che volavano, e le corse in macchina per fuggire alla violenza di questo straordinario fenomeno naturale noto come uragano atlantico.
La trama era scontata, come in questo sequel del resto. È la lotta dell’uomo che cerca di domare la Natura. Ma dietro al progetto c’era nientemeno che la mano di Michael Crichton, geniale inventore di Jurassic Park, e il regista era Jan de Bont, quello di Speed e Tom Raider, per dire lo sprint.
Ma veniamo a Twisters, ora nelle sale. I rimandi al primo Twister per chi l’ha visto sono immediati. Il luogo è lo stesso: l’Oklahoma, paesaggio bellissimo ma dove spesso si abbatte la forza devastante dei tornado (solo ad aprile di quest’anno ce ne sono stati decine con esiti tremendi e ogni volta mi chiedo come fanno le persone a vivere sotto questa minaccia incombente). Il plurale del titolo vi fa già capire che qui di mostri ventosi ce ne sono parecchi, uno dietro l’altro. I produttori, manco a dirlo, sono gli stessi di Jurassic Park e Indiana Jones, il regista è Lee Isaac Chung, che prima di questo ha girato un film, Minari, in cui raccontava della sua infanzia nell’America rurale con il padre immigrato che cerca di coltivare prodotti tipici coreani. Film che ha vinto il Premio della Giuria al Sundance Film Festival, un Golden Globe come migliore film straniero e un Oscar nel 2021 alla migliore attrice non protagonista.
Al posto di Jo, protagonista del primo Twister, in Twisters c’è Kate (Daisy Edgar-Jones), anche lei studiosa di meteorologia, e anche lei con un dramma alle spalle: tre suoi amici, tra cui il fidanzato, muoiono mentre cercano di sperimentare un modo per ridurre l’intensità di un tornado di livello EF5, il più terribile (faccio piccolo spoiler perché tutto questo succede all’inizio e se entrate in sala in ritardo almeno sapete cosa le è capitato). Kate è sopravvissuta aggrappandosi al pilone di un treno sotto a un ponte, come un altro suo amico/collega (Anthony Ramos) che stava analizzando i dati del tornado da remoto.
Kate è una ragazza ferita ma dopo qualche anno ancora sotto sotto sogna di cambiare il mondo e sulla sua strada incontra dei nuovi domatori di tornado. Sembrano sbruffoni, un po’ maranza a dirla tutta, sebbene da subito lei (e anche il pubblico in sala) non può fare a meno di notare il leader di questo strampalato gruppo (per forza, è quel Big Jim di Glen Powell) e scoprirà di avere più di una cosa in comune con loro.
Oltre a una storia d’amore che sboccia, un’ amicizia che si salda e buoni sentimenti americani, il film scorre tra una tragedia sfiorata e l’altra, immagini di villaggi distrutti, gente tratta in salvo, tante praterie e molti cowboy. Immagini potenti che se sei suggestionabile come me ti fanno tirare il fiato a ogni pericolo sfiorato (lo so, esagero). Funziona così, un po’ come per i thriller, solo che coi tornado non c’è da scherzare e la lotta è da subito impari. Ma il meccanismo riesce a generare la grande attesa: vuoi sapere se la gente alla fine si salva. Come mi è successo alcuni anni fa guardando i servizi della CNN sull’arrivo di un tornado che stava devastando l’America. Ero seduta in salotto ipnotizzata dai resoconti dei reporter che sotto secchiate d’acqua e sferzate di vento, si tenevano aggrappati a un palo per raccontare cosa stava accadendo e, intanto, dietro di loro si alzavano onde altissime (era Miami credo), i cartelli stradali volavano, i semafori sembravano sul punto di venire strappati via. Ho passato ore così, aspettando la calma.
Sarà questo che ci fa amare i film catastrofici: l’attesa della calma. Un esercizio di saliscendi adrenalinico per esorcizzare i saliscendi emotivi delle nostre caotiche giornate. In fondo, anche se sembra non esserci alcuna via di fuga l’eroe si salva sempre. E le manifestazioni della natura, così imponenti, sorprendenti e straordinarie, sono bellissime da guardare.