Un po’ fiaba, un po’ “Paisà”, un po’ “C’era una volta in America”. Napoli-New York, il nuovo film di Gabriele Salvatores, appena sbarcato nei cinema distribuito da 01 distribution, è tante cose: un viaggio iniziatico, una parentesi poetica, cinema puro, riflessione sulla società, sull’Italia e la sua storia. Si legge a più livelli e ognuno ci può trovare una citazione, qualcosa che gli ricorda un film già visto, una battuta sentita, un libro letto. Un atto d’amore verso il cinema, quello che siamo stati e siamo diventati. Insomma, un grande film (e ne sono convinta più ci penso) che mi ha commosso, riempito gli occhi, divertito.

Direi che è quasi l’espressione di un periodo felice di Gabriele Salvatores perché c’è realismo magico e tanta speranza, tanto cinema e tanta luce in fondo. Dopo Il ritorno di Casanova, così cupo, decadente e disperato (come quello di Fellini, ancora lui!) che Salvatores ha girato lo scorso anno, è come un abbraccio, una corsa felice verso il futuro.

Napoli-New York si basa su un trattamento (si chiama così quel passaggio dopo il soggetto e prima della sceneggiatura) di Federico Fellini e Tullio Pinelli che, dice il regista, gli è stato affidato, non senza un certo timore da parte sua. Se siete curiosi e volete leggerlo è pubblicato da Marsilio – sotto la copertina – e contiene anche una bellissima introduzione di Gabriele Salvatores che scrive: «Misurarmi con due mostri sacri del cinema italiano, dover inventare delle immagini per le loro parole,
realizzare un film in costume ambientato a Napoli e New York alla fine degli anni quaranta… Ce n’era abbastanza per farti tremare i polsi».

La storia è rocambolesca: siamo nella Napoli del dopoguerra, Carmine e Celestina sono due ragazzini rimasti soli che si barcamenano con piccoli stratagemmi nel caos della città. Scugnizzi che vendono sigarette, si accodano ai turisti o ai marinai americani sperando di racimolare un po’ di monete, li aiutano a trovare alcol e donne o a visitare i luoghi più caratteristici. Bambini con la “cazzimma”, che si muovono tra i vicoli e gli angoli bui in cerca di qualcosa da mangiare. Hanno imparato l’arte di arrangiarsi spinti dalla fame e dalla fame di vita.

Questa ricerca li porta su una nave in partenza per l’America. E così inizia un viaggio incredibile che è al centro del secondo capitolo di questo film. Un viaggio fisico e un viaggio di crescita, di formazione. Sulla nave i ragazzini cominciano a scoprire un nuovo mondo, dove i ricchi viaggiano in alto e si divertono sui ponti, mentre i poveri sono ammassati in terza classe, nella stiva e in condizioni disumane. Per una serie di circostanze però i due riescono a conquistare la simpatia dell’equipaggio, dei marinai che riescono a fregare con le carte, del capitano e del cuoco, gigante buono, e in particolare di un commissario, Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), dall’apparenza dura ma dal cuore morbido.

L’arrivo a New York è l’apertura della fiaba, il miraggio, il luna park che mi ha ricordato la fuga di Pinocchio col gatto e la volpe. La città è colorata, la gente vestita bene e un po’ stramba. Una signora-fata li vede e chiede loro accarezzandoli: «Da dove venite? Dall’Africa?». Fellini dichiara, nelle note legate al soggetto, di non essere mai stato a New York e quindi di essersela inventata, Salvatores usa il technicolor per renderla ancora più magica e, rispetto alla storia creata da Fellini e Pinelli, qui si prende un po’ di libertà. L’avventura per i due ragazzi continua, New York è la loro sliding door, la terra delle possibilità, dove si perdono e si ritrovano, dove conoscono la sorpresa e la malinconia, la tristezza e la gioia, la mancanza e la solidarietà.

«Napoli-New York è sicuramente il mio film tecnicamente più impegnativo» scrive Salvatores nell’introduzione al libro-soggetto-trattamento. «Ma, come al solito, al centro ci sono gli attori: tra gli altri, un bravissimo Pierfrancesco Favino e due straordinari ragazzini napoletani (si chiamano Dea Lanzaro e Antonio Guerra) che mi hanno confermato, anche se non ce n’era bisogno, che, come diceva Eduardo De Filippo, Napoli è un palcoscenico all’aria aperta, dove realtà e finzione si mischiano e tutti, in qualche modo, recitano magnificamente la loro parte».

Il tema di fondo, è quasi scontato dirlo, è l’immigrazione, il volere ricordare che siamo stati noi per primi a emigrare in cerca di fortuna e il film si conclude infatti con un dato: 29 milioni di italiani nel dopoguerra hanno attraversato l’oceano spinti dalla necessità. Sottolinea Salvatores: è bene ricordarlo. C’è una frase che in napoletano dice la bambina: «Non sei straniero, sei solo povero. I ricchi non sono mai stranieri dovunque vadano». C’è anche la citazione a Paisà il capolavoro di Roberto Rossellini in una bellissima scena in cui Celestina, persa nella grande metropoli, viene attratta dall’insegna in italiano di un cinema mentre è in cerca di qualcosa di conosciuto, che le ricordi casa. E sullo schermo la vede proprio la sua casa, la gente che conosce. È la magia del cinema che qui è prepotente. C’è l’ombra di C’era una volta in America di Sergio Leone, il retrogusto di qualche opera di Eduardo De Filippo, il richiamo a E la nave va di Fellini, il ricordo degli altri film con i bambini sempre di Salvatores… C’è una colonna sonora bellissima che è anch’essa protagonista con le voci di Tom Waits, i Procol Harum, la Nuova compagnia di canto popolare. Ci sono emozioni e ricordi che affiorano in chi lo guarda. Soprattutto c’è, in questa dimensione un po’ fiabesca, la voglia di ritrovare quel ragazzino che ognuno di noi porta ancora con sé. E sicuramente Gabriele Salvatores, a 74 anni, il suo ragazzino ha saputo tenere ben vivo.

Se qualcosa ti emoziona, non servono spiegazioni.

Federico Fellini